mercoledì 20 giugno 2012

Divorzio: la cultura individualista può averne incrementato il numero?


Divorziare per i troppi gatti: succede in Israele, dove un uomo ha chiesto e ottenuto il divorzio perchè la moglie avrebbe adottato più di 500 gatti che, come possiamo immaginare, rendevano la loro vita abbastanza "particolare". Al di là della bizzarra notizia, sicuramente quello che balza all'occhio è sicuramente la difficoltà di comunicare in una coppia, di venirsi incontro e di fare sacrifici.

Probabilmente la donna non sarà arrivata a casa con una camionata di gatti tutta in un colpo, ma non si capisce perchè non abbia condiviso la scelta con il marito e perchè insieme non abbiano trovato una soluzione. Perchè a volte non ci si prende cura della coppia per soddisfare i propri bisogni narcisistici o i propri interessi personali? Può essere causato anche dall'influenza culturale che ha spostato il suo asse verso una cultura individualista, consumista e utilitarista?

Non vi sono più  doveri, ma solo diritti; non si parla più di legami, ma solo di relazioni. Si è perso di vista che il termine sacrificio non è solo rinuncia e sforzo, ma, come l'etimologia insegna, il concetto deriva dal latino sacrificium, sacer facere, cioè rendere sacro, vale a dire quel passaggio che porta un oggetto, una persona o una relazione dalla condizione profana a quella sacra.

Può, secondo voi, lo sviluppo della cultura centrata sulla valorizzazione del Me e del Mio incrementare il numero delle separazioni e dei divorzi?




1 commento:

  1. La cultura del Me e del Mio non nasce per caso. La famiglia, fino al secolo scorso, era fondata sul patrimonio e sulla prole: la donna doveva scegliere il “buon partito” e fare figli. Semplificando molto l’analisi dei processi, l’aumento di cultura e di consapevolezza della donna, questo ha portato alla sostituzione del “buon partito” con quella del “buon padre per i miei figli”, inserendo così il concetto di “innamoramento” come criterio per la scelta del coniuge, criterio che si è ben presto esteso anche ai maschi.
    Purtroppo, nessuno ha messo a fuoco i criteri dell’innamoramento e dell’amore: si acquista un’automobile con un contratto che specifica anche le emissioni di monossido di carbonio, ma ci si sposa senza che nessuno definisca i margini dell’impegno di “amare” il coniuge. Come si fa a sapere se l’amore aumenta o diminuisce? Come si fa a sapere se mi ama ancora o no? Come si fa a sapere se amo veramente o mi illudo di amare? Prima, il divorzio o l’annullamento del matrimonio, si fondavano su prove concrete: l’andamento del patrimonio e la possibilità di avere figli: oggi, pur nel significativo miglioramento, ci si è mantenuto un contratto dimenticando di definirne i termini.
    Quindi, non è la perdita della capacità di sacrificio, che, invece, è forse aumentata durante il periodo della seduzione, ma la possibilità di valutare l’efficacia del sacrificio: val la pena di rinunciare a tanto per un amore che non posso misurare, non posso sapere se aumenta o diminuisce?
    Ritengo che, in questa condizione, sia proprio il contratto matrimoniale uno degli ostacoli maggiori alla durata del matrimonio: per esempio, le convivenze che passano al matrimonio diventano improvvisamente più fragili. Il contratto, fondato su termini non definiti, cambia i termini relazionali, dagli sforzi della seduzione durante il periodo prematrimoniale, al godimento dei diritti acquisiti una volta definito il contratto. Oggi, sarebbe più opportuno definire un contratto che definisca gli impegni reciproci nei confronti della prole, invece che quelli di coppia: si manterrebbe il problema della conquista costante, e si garantirebbero meglio i minori.

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